Sacerdote (1580-1654) 9 settembre
San Pietro Claver nacque a Verdù in Catalogna in una famiglia profondamente cristiana appartenente alla classe operaia, probabilmente il 25 giugno 1580. Dopo essersi laureato a pieni voti all’università gesuita di Barcellona, ricevette gli ordini minori, ma nel 1601 decise di diventare gesuita e in quell’anno fu accettato nel noviziato di Tarragona, pronunciando i suoi primi voti il 7 agosto 1602. Da Tarragona fu inviato nel 1605 al collegio di Montesión a Palma di Maiorca, dove conobbe S. Alfonso Rodriguez (30 ott.), custode del collegio che, oltre a essere un modello di santità per il giovane studioso per lungo tempo, gli fece nascere il desidero di recarsi come missionario nelle colonie del Nuovo Mondo. Quando per la prima volta Pietro chiese di partire per la missione, il provinciale gli annunciò che il suo futuro sarebbe stato deciso a tempo debito dai suoi superiori; poi, nel 1610, terminati gli studi di teologia a Barcellona, fu scelto per rappresentare la provincia d’Aragona in una missione di gesuiti spagnoli a Nuova Granada.San Pietro Claver è l’apostolo di Cartagena, oltre che degli schiavi, spese la sua vita facendosi egli stesso schiavo loro. Li andava ad accogliere al loro arrivo cercando di offrire generi alimentari e cure all’arrivo, e catechesi poi ai loro compratori. Finì per essere disprezzato al termine della sua vita, ma come spesso accade, assai cercato dopo la morte.
VIDEO-STORIA
http://www.youtube.com/watch?v=gzzsNOKL-AwNell’aprile 1610, Pietro lasciò la Spagna (per sempre, come risultò a posteriori) e, dopo un viaggio difficile, sbarcò con i suoi compagni a Cartagena nell’attuale Colombia. All’inizio, si stabilì nel convento gesuita a Santa Fé de Bogotà per terminare i suoi studi di teologia e lavorare come sacrestano, custode, infermiere e cuoco; poi si recò al convento di Tunja, dove portò a termine il suo noviziato come terziario. Nel 1615 tornò a Cartagena, dove fu ordinato sacerdote il 19 marzo 1616, anno in cui cominciò a occuparsi degli schiavi, impegno che divenne la missione della sua vita. In quest’epoca, il commercio degli schiavi era già ben consolidato: alcuni monarchi, come l’imperatore Carlo V (1516-1556), lo consideravano un profitto, lo incoraggiavano e, nonostante le critiche, furono perdonati da non pochi moralisti. Nelle Americhe questo commercio ricevette un nuovo impulso quando il popolo si accorse che gli africani erano fisicamente meglio dotati degli indigeni locali per lavorare nelle miniere d’oro e argento. I commercianti li compravano in Africa occidentale, per quattro corone ciascuno, e li deportavano attraverso l’Atlantico in condizioni indescrivibilmente pessime e disumane.Un terzo di tutti gli schiavi stivati su una nave di solito moriva durante il viaggio che durava sei o sette settimane, e giungevano ogni anno circa diecimila schiavi vivi, a Cartagena e Vera Cruz, che erano i porti d’ingresso più importanti. La deportazione continuò, sebbene le autorità ecclesiastiche, da papa Paolo III (1534-1549) in poi, avessero condannato questo commercio, considerandolo un grave crimine. Quasi tutti i padroni, come risposta, fecero battezzare i loro schiavi, poi continuarono a comportarsi come prima.
Dal momento che gli schiavi non ricevevano alcuna istruzione e nessun sacerdote svolgeva il suo ministero presso di loro, mentre le loro condizioni restavano crudeli e sconfortanti come prima, il battesimo divenne sinonimo, nella loro mente, di oppressione. Il clero era più o meno impotente; i sacerdoti protestavano e svolgevano il loro ministero come potevano, ma non avevano denaro a disposizione, oltre a essere allontanati dai padroni ed ignorati dagli schiavi.
Quando Pietro andò a lavorare presso gli schiavi per la prima volta, fu guidato da Alfonso de Sandoval, grande gesuita missionario che aveva già svolto questo apostolato per quarant’anni, e nel 1627 pubblicato Naturaleza, policla sagrada i profana, costumbres i rilos, disciplina i catecismo evangèlico de todos Etiopes come sintesi delle sue esperienze. Fu una grande fonte d’ispirazione per Pietro, che, dopo aver lavorato accanto a lui per un periodo, si definì Petrus Claver, Aethiopum servus (schiavo degli africani). Si dedicò così completamente a questa missione che quando giunse il momento della sua professione finale nel 1622 volle unire un voto extra a tal fine. Sebbene fosse timido e non avesse molta fiducia in se stesso, Pietro si dedicò totalmente a quest’attività, che svolse con metodo e buona organizzazione. Pagandoli con denaro, beni, o servizi, organizzò gruppi di assistenti, ed era presente ogni volta che una nave di schiavi entrava in porto.
La scena cui si assisteva quando gli schiavi erano sbarcati era veramente orribile (infatti, anche chi aveva esperienza, come Alfonso de Sandoval, non riuscì mai ad abituarsi). Centinaia di esseri umani, la maggior parte malati, alcuni morenti, che erano stati rinchiusi nelle ultime settimane nella nave in condizioni indicibili, venivano ora ammassati in uno spazio limitato e osservati dalle folle(Alfonso de Sandoval descrisse queste ultime come «sciocchi spettatori attirati dalla curiosità e attenti a non avvicinarsi troppo»). Fu in questi cortili o ripari affollati che si recò Pietro, portando con sé generi di conforto come medicine, cibo, brandy, limoni e tabacco. Sebbene molti schiavi fossero troppo spaventati o troppo malati per accettare quello che era loro offerto, Pietro sentiva che era un giusto approccio. «dobbiamo parlare loro con le mani,» si dice abbia affermato «prima di provare a parlare con le labbra.»
Molti ecclesiastici decisero che la loro ignoranza delle lingue africane li avrebbe esentati dal compito di preparare gli schiavi al Vangelo e di dar loro l’istruzione necessaria a comprendere le verità della fede, ma non Pietro. Tentò di imparare la lingua dell’Angola, dal momento che così tanti schiavi provenivano da quel luogo, e per il resto si avvaleva dell’aiuto di interpreti (uno dei quali era in grado di parlare quattro lingue africane). Si dice abbia battezzato immediatamente quelli che stavano morendo, e i bambini nati durante il viaggio, e poi si sia occupato delle necessità fisiche e spirituali del resto degli schiavi.
A causa della difficoltà della lingua, usò molto le immagini, per comunicare il messaggio cristiano, e soprattutto per ricostruire l’autostima degli schiavi, per convincerli di avere una dignità e un valore come esseri umani. Alcune di queste immagini erano sue, ma adoperò anche le centosessantuno illustrazioni della Vita Domini Nostri Jesus Christi di Bartolomeo Ricci, che era stata pubblicata a Roma initaliano e in latino nel 1607. Non deve essere stato semplice instillare un senso di pentimento in persone così maltrattate, ma Pietro decise di convincerli, individualmente e collettivamente, che erano amati anche di più di quanto fossero umiliati, e che il Dio dell’amore non sarebbe stato offeso da un comportamento crudele o licenzioso. Era una battaglia ardua da ogni punto di vista (forse non trovavano facile nemmeno il concetto di nome, e Pietro cominciò a battezzarli in gruppi di dieci e a dar loro lo stesso nome così che potessero ricordarlo). Infinitamente paziente, e in quel contesto difficile, non solo li battezzò, ma insegnò loro anche il sacramento della penitenza. Si dice che abbia ricevuto la confessione di più di cinquemila schiavi in un solo anno, e che in quarant’anni ne abbia istruito e battezzato più di trecentomila.
Una volta venduti, gli schiavi erano trasportati alle miniere o nelle piantagioni, e si trattava generalmente dell’ultima volta che Pietro vedeva la maggior parte di loro. Confidava che Dio se ne sarebbe preso cura, ma allo stesso tempo rifiutava, scioccamente agli occhi di qualcuno, di accettare che i loro padroni fossero irrimediabilmente dei mostri di malvagità, pensando che fossero anche loro anime da salvare.
Facendo appello al lato migliore del loro carattere, a quanto pare li spingeva, per il loro bene, oltre che per quello degli schiavi, a trattarli con giustizia in quella situazione ingiusta. Se avesse saputo cosa accadeva in realtà dopo la loro partenza, sarebbe stato probabilmente sconcertato, anche se solo i peggiori padroni spagnoli eguagliarono la crudeltà delle loro controparti inglesi nei Caraibi. Una differenza notevole tra i due sistemi era che, in base alle leggi spagnole, gli schiavi potevano sposarsi, e non dovevano divorziare, e Pietro fece tutto il possibile per assicurarsi che tali norme fossero osservate. Ogni primavera, dopo Pasqua, era solito visitare le piantagioni, che si trovavano a una notevole distanza da Cartagena, per vedere le condizioni dei suoi africani.
Durante queste missioni, evitava il più possibile di accettare l’ospitalità deipadroni, preferendo invece condividere gli alloggi con gli schiavi; non era sorpreso, tuttavia, se talvolta incontrava ostilità. I padroni si lamentavano che faceva perdere tempo agli schiavi, le loro mogli che non potevano entrare in chiesa dopo che gli schiavi erano stati a Messa, e tutti lo biasimavano se questi ultimi si comportavano male. A volte si chiedeva che sorta di persona poteva essere, se i suoi tentativi di compiere un po’ di bene causavano tanta confusione, tuttavia perseverò, persino quando le autorità ecclesiastiche sembrarono appoggiare i padroni anziché lui.
Molti racconti sul valore di Pietro riguardano l’opera di assistenza dei malati, anche se non si trattava sempre di schiavi, in circostanze che quasi nessun altro, bianco o nero, avrebbe potuto sopportare. Esistevano due ospedali a Cartagena: il S. Sebastiano, gestito dai Fratelli di S. Giovanni di Dio (fatebenefratelli), per i casi generici; e il S. Lazzaro, specificamente per malati di lebbra e di fuoco di S. Antonio (erisipela). Pietro li andava a trovare ogni settimana, pensando alle necessità fisiche e spirituali dei pazienti.
Seguendo lo spirito del tempo, era particolarmente interessato al benessere spirituale dei mercanti e marinai protestanti, e di altri che incontrò lavorando in ospedale.Convertì molte persone al cattolicesimo, incluso, a quanto pare, un arcidiacono di Londra. I suoi tentativi con i musulmani non ottennero molti risultati, ma riuscì a convertirne qualcuno, tra cui un uomo che resistette per trent’anni, finché fu convinto da un’apparizione della Madonna. Pietro si occupava anche delle prigioni, dove trascorreva parte del suo tempo con i criminali in attesa di essere giustiziati, e con i detenuti comuni, ascoltando le loro storie, rimproverandoli, consolandoli e assolvendoli. Il suo ministero presso i marinai e i mercanti protestanti negli ospedali alla fine si trasformò in una regolare missione autunnale diretta a quelli che sbarcavano numerosi a Cartagena, in ogni momento dell’anno.
A quanto sembra, stava in piedi per ore nella grande piazza della città predicando a chiunque l’ascoltasse, diventando perciò noto come l’apostolo di Cartagena, oltre che degli schiavi. Pochi hanno svolto il loro lavoro in circostanze così sgradevoli, in ogni caso Pietro diede poca importanza al fatto di doverle sopportare. Il fatto che fosse disposto a vedere le peggiori manifestazioni della malvagità e della malattia per aiutare le vittime, lo attribuì a una mancanza di sensibilità. «Se essere santo consiste nel non avere il senso del gusto, ma uno stomaco forte,» disse una volta «ammetto di esserlo.»
Nel 1650 Pietro, a circa settant’anni, si recò a predicare, durante il giubileo di quell’anno, tra gli africani che vivevano lungo la costa, ma dopo poco tempo, si ammalò e fu richiamato a Cartagena. A causa del suo stato di debolezza, fu il primo dei gesuiti del luogo a soccombere a un’epidemia virale di peste che si estese rapidamente per la città, rischiando la morte. Dopo aver ricevuto gli ultimi sacramenti, guarì, ma era fisicamente molto debole, e per il resto della vita ebbe dolori costanti, oltre a un tremito incontrollabile che gli impedì di continuare a celebrare la Messa.
Visse in uno stato d’inattività forzata, respinto da quasi tutti i membri della comunità che stavano diminuendo. E vero che gli altri sacerdoti erano quasi sempre occupati a lavorare nella città colpita dalla peste, ma la loro indifferenza fu ugualmente molto sorprendente.
Ogni tanto Pietro si sentiva abbastanza forte da ascoltare qualche
confessione (tra i suoi penitenti regolari vi era Dona Isabela de
Urbina, che nel corso degli anni gli aveva fornito un consistente
appoggio finanziario), oppure faceva visita a qualche malato in prigione
o all’ospedale; altrimenti restava nella sua cella, dove Dona Isabela,
sua sorella, e forse Nicola Gonzàles gli facevano visita quando
possibile.Fu accudito da un giovane negro che aveva la tendenza a essere impaziente e sgarbato, e che lo ignorava spesso per giorni. L’unica volta che le autorità si ricordarono della sua esistenza fu quando appresero che aveva ripreso a battezzare gli africani, notizia falsa, ma in base alla quale non gli fu più permesso di battezzare. Senza lamentarsi, come sempre, si paragonò all’asino: «Quando si parla male di lui, è muto, quando muore di fame, è muto, quando è sovraccarico è muto, quando è disprezzato e rifiutato è muto, non si lamenta mai in nessuna circostanza poiché è solo un asino: così deve essere il servo di Dio».
Nel 1654, Diego Ramirez Farina arrivò dalla Spagna con una commissione inviata dal re,per lavorare tra gli schiavi. Pietro, colmo di gioia nel sapere che era stato mandato qualcun altro che avrebbe continuato il suo lavoro, si trascinò fuori della cella per salutare il suo successore, e subito dopo ascoltò la confessione di Dona Isabela, annunciandole che sarebbe stata l’ultima. Poi il 6 settembre, dopo aver partecipato alla Messa e avere ricevuto la comunione, avvisò Nicola Gonzàles che sarebbe presto morto: quella sera si ammalò gravemente ed entrò in coma. Quando si diffuse la notizia in città, il popolo giunse numeroso per baciargli le mani e prendere qualche oggetto, anche piccolo, da conservare come reliquia (la cella fu subito depredata di tutto ciò che poteva rispondere ai requisiti). Pietro non riprese più conoscenza e morì due giorni dopo, l’8 settembre.
Le autorità civili e religiose avevano considerato la sua attività presso gli schiavi come un entusiasmo maldisposto e uno spreco di tempo, ma ora, come accade tanto spesso, entrarono in competizione una con l’altra per onorare la sua memoria. Il vicario generale della diocesi officiò il funerale, e Pietro fu seppellito con una gran cerimonia a spese pubbliche. Gli africani e gli indigeni organizzarono una propria splendida Messa, a cui invitarono le autorità spagnole. La fama della vita e del lavoro di Pietro si estese in tutto il mondo; nel 1888, assieme al suo amico e mentore, S. Alfonso Rodriguez, fu canonizzato da papa Leone XIII (1878-1903), che lo nominò patrono di tutte le attività missionarie presso i neri.
E’ INVOCATO: – come protettore alle missioni africane
Fonte: Il primo grande dizionario dei santi di Alban Butler
Nessun commento:
Posta un commento