martiri coreani (t dal 1839 al 1867) 20 settembre
Nell’edizione inglese del 1938 di quest’opera, questi martiri erano originariamente citati come i «BB. Lorenzo Imbert e cc » . Secondo una tendenza culturale, o più probabilmente clericale, del tempo, non insolita, la voce riguarda il vescovo Imbert e due sacerdoti francesi, Pierre Philibert Mauban e Jacques Honoré Chastan, e il contributo di questi uomini devoti e coraggiosi non dovrebbe essere sminuito: offrirono la loro vita per la Chiesa coreana. Il cristianesimo era stato introdotto in quel paese cinquant’anni prima del loro arrivo, non da missionari stranieri, ma da un laico coreano. A peggiorare le cose, i cosiddetti padri fondatori, gran parte dei quali morì per la fede, non compaiono tra i centotré martiri canonizzati nel 1984, che morirono tutti tra il 1839 e il 1867, in altre parole, dopo l’arrivo dei missionari e l’istituzione nel 1831 del vicariato di Choson. L’ipotesi che la Chiesa coreana non fosse istituita fino ad allora è fonte di disappunto per molti cattolici coreani, orgogliosi delle origini laiche della loro Chiesa.Questi due martiri coreani portano col loro ricordo la sofferenza di un intero popolo che a tutt’oggi è costretto a professare la propria fede nella clandestinità e nella paura. Questo perché anche dopo il trattato di fine ottocento continuiamo ad avere episodi seppure sporadici di violenza, qui come in altre parti del mondo.
VIDEO-STORIA
Nel IV e V secolo, quando la Corea era ancora divisa in tre stati separati, la religione ufficiale era il buddismo; durante l’unificazione, dal X secolo fino alla fine del XIV, il confucianesimo, che strettamente parlando non è una religione, diventò la filosofia politica predominante, sebbene il buddismo rimanesse la religione principale. In seguito, quando il buddismo divenne dissoluto e oppressivo, il neoconfucianesimo si pose come strumento di riforma, ma inevitabilmente, a sua volta, cedette alla corruzione, così nel XVII secolo gli intellettuali coreani, che si definivano neopragmatici di Confucio, stavano già cercando nuovi valori culturali. Fu a questo punto che, grazie ai libri importati dalla Cina, il cattolicesimo per la prima volta cominciò a suscitare interesse.È vero che, durante l’invasione giapponese alla fine del XVI secolo, un gesuita, Gregorio de Céspedes, insieme con un monaco anonimo entrarono nel paese, ma s’arruolarono come cappellani nell’esercito giapponese, senza avere perciò nessun contatto con i coreani, che in realtà avvenne in Cina nel XVIII secolo. Durante un soggiorno a Beijing, alcuni diplomatici coreani furono presentati ai gesuiti, che li accolsero nelle loro chiese e prestarono loro i libri, che, una volta riportati in Corea, suscitarono enorme interesse, specialmente tra gli studiosi. Uno in particolare, un giovane di nome Yi Sung-hun, non accontentandosi solo di leggerli, cominciò a divulgare questa nuova fede tra i suoi amici, poi nel 1784 si recò con il padre a Beijing dove fu battezzato da un missionario francese, Luigi de Grammont, con il nome di Pietro. Al suo ritorno a Seoul, carico di libri, rosari, croci, e statue, Pietro battezzò un certo numero di amici e di collaboratori, che insieme formarono la prima comunità cattolica in Corea.
La casa di un certo Kim Bom-u (sull’attuale sito della cattedrale di Myongdong) divenne la loro chiesa, dove s’incontravano ogni settimana per celebrare la domenica. Questa comunità ecclesiale cattolica, tuttavia, prima al mondo a essere fondata non da missionari stranieri, ma dai laici del luogo, attirò presto l’attenzione delle autorità. Nel marzo 1785, il gruppo fu disperso, e poiché Kim Bom-u aveva permesso che s’incontrassero nella sua casa, fu arrestato e torturato, morendo subito dopo in esilio. Quando Pietro riuscì a riorganizzare la comunità, due anni dopo, quattro membri si ordinarono sacerdoti e iniziarono a celebrare la Messa e ad amministrare i sacramenti, ma sentirono tuttavia che si trattava di un errore, perciò nel 1789 un membro della comunità si recò a Beijing per consultare il vescovo e chiedergli l’invio di sacerdoti in Corea.
Alla fine, il vescovo affidò l’incarico a un sacerdote cinese, che però perse la sua guida e non arrivò mai. Un altro sacerdote cinese giunse nel paese il 23 dicembre 1794, ma non prima che molti cattolici coreani morissero per la fede, denunciati come eretici al re dai membri della nobiltà, nel 1791.
Nei quarant’anni dal 1791 al 1831, quando fu istituito il vicariato apostolico di Corea, i cattolici subirono diverse persecuzioni, tra cui la peggiore fu quella indetta dalla regina Chong-sun, che diventò reggente per il suo pronipote, Sunjo, nel 1800, e che vedeva il cattolicesimo come una minaccia alle tradizioni e ai costumi coreani. Circa trecento cattolici, incluso il sacerdote cinese, morirono l’anno seguente come risultato della sua decisione di sradicarlo. In tutto questo periodo, i cattolici che riuscivano a scampare alla morte, fuggivano sulle montagne, dove formavano nuove comunità e tenevano viva la fede. E’ difficile dire esattamente quanti fossero i cattolici presenti nel paese a quel tempo: la cifra di diecimila contenuta in una lettera scritta da uno di questi gruppi a papa Pio VII (1800-1823) può essere esagerata, ma molti provenivano da ogni stato sociale, e centinaia morirono per la fede.
Negli anni di persecuzione, i cattolici coreani continuarono a recarsi a Beijing per chiedere l’invio di sacerdoti, e tra i più attivi in questo senso c’era un nobile signore, Chong Ha-sang Paolo, il cui padre assieme al fratello maggiore era tra i martiri dell’inizio del secolo (sua madre e sua sorella subirono il martirio subito dopo di lui nel 1839). Dall’età di vent’anni, Paolo spese ogni sua energia per tentare di rivitalizzare la Chiesa: insieme con degli amici scrisse una lettera a Pio VII, citato sopra, e si recò a Beijing non meno di nove volte per tentare di ottenere ciò che chiedevano.
Alla
fine, il 9 settembre 1831, fu formalmente istituito il vicariato
apostolico di Corea, affidato alla supervisione della Società per le
Missioni straniere a Parigi. Il primo vicario apostolico, il vescovo Barthélemy Brugière, non riuscì mai ad entrare in Corea e morì in Mongolia il 20 ottobre 1835. Il suo successore, il vescovo Laurent Marie Joseph Imbert, fu più fortunato e riuscì a entrare nel paese attraversando il Fiume Yalu, il 31 dicembre 1837, evitando la perquisizione perché indossava il vestito da lutto tradizionale, che comprendeva soprattutto un enorme cappello a forma di canestro, che lo nascondeva completamente .Per legge, la polizia non poteva fermare né disturbare chi lo indossava, perciò i missionari lo trovarono utile. Nel
1838, la Chiesa coreana aveva già un vescovo, due sacerdoti (Pierre
Philibert Mauban, di Vassy, a sud ovest di Caen, che riuscì a entrare
nel paese durante il 1836, e Jacques Honoré Chastan, da Marcoux nelle
Basse Alpi) e circa novemila membri laici.
Dai racconti ufficiali che riguardano i singoli martiri è
possibile ricostruire un quadro del tipo di vita condotta dai cattolici
in Corea, a metà del XIX secolo. Apprendiamo che Chong Ha-sang Paolo era solito recarsi a Uiji sul confine per incontrare i missionari che riuscivano ad arrivaci, che dopo essere entrati, dipendevano totalmente per il loro sostentamento dalla carità del popolo locale.
Tra i molti che li accolsero in casa c’erano: Chong Ha-sang Paolo
stesso, Kvvon Hui Barbata, moglie, madre, e cognata dei martiri, Cho
Chung-i Barbara, che aveva perso molti parenti nella persecuzione del
1801, e due fratelli, Hong Pyong-ju Pietro e Hong Yong-ju Paolo, nipoti
dei martiri; tutte queste persone, con altra gente, rischiarono la
vita offrendo ospitalità ai missionari, «per celebrare i sacramenti, o
semplicemente per nascondersi».I cattolici laici, che provenivano da ogni ceto sociale, formavano una comunità straordinariamente unita, o piuttosto un gruppo di comunità strettamente in relazione. Molti, come Hong Pyong-ju Pietro, Pak Chong-won Agostm e Hyon Song-mun Carlo, lavorarono attivamente per la Chiesa come catechisti, ma tra loro vi erano diversi agricoltori, oltre a un traduttore, un interprete, tre dame di corte, un governatore provinciale, e un ciambellano reale, tre mercanti, un farmacista, un marinaio, e un soldato, per non menzionare le mogli, le vedove e le nubili consacrate che formavano circa la metà del gruppo. La più vecchia, Yu So-sa, aveva settantanove anni alla sua morte, la più giovane, Yu Tae-ch’ol Pietro, solo tredici. Dall’elenco dei nomi, è evidente che molti erano imparentati l’un l’altro: una vedova, Yi Chong-hui Barbara, per esempio, era figlia di Ho Kye-im Maddalena, sorella di Yi Yong-hui Maddalena, nipote di Yi Mae-im Teresa, e zia di Yi Barbara (che aveva solo quindici anni quando morì in prigione). I membri di questa famiglia, e di altre simili, erano in grado di sostenersi l’un l’altro, ma le cose erano molto più difficili per i cattolici che provenivano da famiglie pagane, o, che come Pak Hui-sun Lucia, lavoravano a corte.
Lucia era molto intelligente, ben istruita e insegnava letteratura coreana e cinese a diverse dame di corte. Il fatto che piacesse e fosse apprezzata dalla regina, le rese difficile lasciar la corte, ma riuscì a farlo alla fine, fingendo di essere malata. La gente rimase al suo posto, continuando a svolgere la propria normale attività il più a lungo possibile ma, dopo l’inizio della persecuzione, l’unica possibilità fu di trasferirsi da un luogo all’altro, come nel caso di Yi Kwang-hon Agostino che, infatti, alla fine si ridusse in povertà per colpa dei continui spostamenti; i suoi amici cristiani, tuttavia, venuti a conoscenza della sua situazione, come le loro controparti a Gerusalemme, raccolsero tutto il denaro possibile per consentirgli di comprare una casa vicino alle mura della città.
Per contraccambiare questo gesto, mise la sua casa a disposizione perché fosse usata come cappella, oltre a svolgere con fervore il suo incarico di catechista.
Non sorprende che Seoul fosse il centro principale dell’attività cattolica, e che molta gente delle zone rurali, specialmente chi proveniva da famiglie pagane, gravitasse intorno alla città in cerca d’appoggio. Nel 1839, quando gli anticattolici furono di nuovo politicamente in ascesa, gli informatori li avvertirono della presenza dei missionari francesi, causando l’inizio di una grave persecuzione, perciò il vescovo disse ai due sacerdoti di consegnarsi alle autorità nella speranza di distogliere l’attenzione dal popolo laico. Il 21 settembre di quell’anno, dopo aver rifiutato di rinnegare il loro Dio, Lorenzo Imbert e i suoi due compagni francesi furono decapitati da alcuni militari a Saenamt’o, sul Fiume Han, poi seppelliti sulla montagna Samsongsam, anche se i resti furono successivamente trasportati nella cattedrale di Myongdong.
Lorenzo aveva quarant’anni, e i due sacerdoti trentasei. Tra il 20 maggio 1839 e il 29 aprile 1841 morirono anche sessantasette dei novantadue laici cattolici su centotré, dopo essere stati rinchiusi per settimane, talvolta per mesi, in prigioni malsane e sovraffollate, con la costante preoccupazione di non vivere abbastanza a lungo da essere condannati a morte ufficialmente per la loro fede (undici su centotré non vi riuscirono poiché morirono in prigione). I sopravvissuti alle torture straordinariamente crudeli riservate ai prigionieri cattolici erano legati a una croce e trasportati su un carro tirato da buoi fino al luogo dell’esecuzione, denudati e decapitati (la procedura fu più complicata nel caso di coloro che, come i missionari, furono giustiziati dai militari a Saenamt’o).
La grande eredità di Lorenzo Imbert, Pietro Mauban e Giacomo Chastan lasciata alla Chiesa coreana, a parte l’esempio di devozione e coraggio, fu una struttura più organizzata e la formazione di un clero autoctono. Nel 1837, tre giovani uomini erano stati mandati a Macao perché completassero la loro istruzione al seminario; nel gennaio 1845 uno dei tre, Kim Tae-gon Andrea, ritornò in Corea, dove si mise in contatto con alcuni catechisti, poi ripartì per scortare il successore di Lorenzo Imbert, il vescovo Giuseppe Ferréol, e un sacerdote francese, Antoine Daveluy, e farli entrare in quel paese. Il 17 agosto, a Shanghai, il vescovo Ferréol lo ordinò primo sacerdote autoctono coreano, ma il suo ministero fu breve: al suo ritorno in Corea con i due francesi alla fine di agosto, cominciò i preparativi affinché un altro gruppo di missionari francesi e uno degli altri seminaristi coreani, ora sacerdote, entrassero nel paese, ma fu arrestato nel giugno 1846. Le autorità, riluttanti a dichiararlo colpevole a causa della sua forte personalità, grand’erudizione e conoscenza delle lingue, alla fine lo condannarono a morte. Dalla prigione in cui trascorse tre mesi, scrisse una lettera d’incoraggiamento al suo popolo; aveva solo ventisei anni quando fu decapitato, anch’egli a Saenamt’o, il 16 settembre 1846. Tra il 1846 e il 1874, altri sette missionari francesi (inclusi i due vescovi, Siméon Berneux e Antonio Daveluy) e venticinque coreani furono condannati a morte per la fede, ma si sa che morì un numero dieci volte maggiore. Con il Trattato tra Corea e Francia del 1886, terminò la persecuzione, durata un secolo, nonostante che da allora siano avvenuti alcuni sporadici episodi persecutori; nel 1901, per esempio, quando più di settecento cattolici furono uccisi sull’isola di Cheju in pochi giorni; e anche durante la guerra di Corea (1950-1953), allorché molti vescovi, sacerdoti, monache, e laici furono assassinati o espulsi. Nella Corea del Nord oggi la Chiesa è clandestina.
103 martiri sono stati canonizzati da papa Giovanni Paolo II nella cattedrale di Seoul il 6 maggio 1984.
ANDREA KIM E’ INVOCATO: – come protettore del clero
Fonte: Il primo grande dizionario dei santi di Alban Butler
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