Beata Maria degli Angeli
(? 166O-1717) 16 dicembre
Per le notizie riguardanti la fanciullezza e tutta la vicenda umana e spirituale della nostra santa abbiamo la fortuna di poter attingere a una fonte di prima mano, la sua Autobiografia, scritta per ordine dei superiori e a loro diretta verso l’anno 1686, sotto forma di semplice relazione, senza titolo, in uno stile immediato, scarno, essenziale, alieno da qualsiasi artificio letterario e da quel vuoto verbalismo che contraddistingue altri scritti dell’epoca.Marianna Fontanella fu la nona degli undici figli di un conte di Santena, vicino a Torino, e della moglie. Bambina molto intelligente, mostrò fin dall’inizio una gran devozione, in particolare in seguito a una malattia. Fortemente attratta dalla vita religiosa, nel 1676, dopo aver vinto l’opposizione della sua famiglia, fu accolta nel Carmelo di Santa Cristina, all’età di sedici anni con il nome di suor Maria degli Angeli.
Una confessione disincantata, in cui il vero protagonista è Dio, il buon Pastore che «non si stanca di seguitarmi, cercando la povera pecorella smarrita». Dal documento emergono nitidi i ricordi della fanciullezza, dell’adolescenza, dei primi anni giovanili vissuti in famiglia e al Carmelo di S. Cristina in Torino. Marianna trascorre un’infanzia serena, circondata dall’affetto dei genitori e dei fratelli, in un ambiente signorile e agiato, di solidi principi cristiani. Fin dai più teneri anni, annota, «ero alquanto incline al bene, facendo altarini, recitando orazioni, mentre le altre stavano ricreandosi, gustavo sentire parlare di Dio e pigliavo spesso un mio fratello per ragionar seco delle cose del cielo, secondo la nostra poca capacità».
Una delle domestiche di casa Fontanella, evidentemente molto pia, si preoccupava di leggere ai due fanciulli «vite dei santi» e la loro fantasia ne rimaneva colpita, così che «un
giorno ci accordassimo, mio fratello e me, di imitarne una, e questa fu
di andar nel deserto per far penitenza. Ci preparavamo una piccola
taschetta con del pane e una piccola bottina di vino, dicendo fra noi
due: basta che ci duri fino al deserto, là poi Nostro Signore provvederà».
Alla sera i due fuggitivi osservarono
attentamente dove veniva riposta la chiave di casa per «poter fuggire…
senza che nessuno di casa se ne accorgesse». Ma la mattina seguente
restarono addormentati e quando la domestica andò a svegliarli come di
consueto, fu sorpresa dal loro pianto
inconsolabile. «Ci chiamavano perché piangessimo, ma non potevano cavarci niente». Quando poi si scoprì la piccola bisaccia, le domande si fecero più incalzanti e l’interrogatorio più serrato, ma i due piccoli congiurati erano muti come pesci. Si fece ricorso allora alla minaccia «di staffilate» se non confessavano la verità ,«e io – ammette umilmente Marianna – come più nemica del patire, li scoprii il tutto, e così il tutto andò in vano» .
L’episodio, che richiama immediatamente alla memoria quello analogo
di Teresa de Ahumada e suo fratello Rodrigo che fuggono di casa per
andare a morire martiri per Cristo nelle terra dei mori, rivela subito
nella piccola Marianna il temperamento vivace e volitivo, una
sensibilità acuta per i valori dello spirito, l’innata capacità di
tradurre in opere il bene. Caratteristiche che anticipano uno
degli aspetti che più colpisce nella sua eccezionale personalità di
donna e di mistica. C’è tuttavia un altro avvenimento della sua
fanciullezza che merita di essere ricordato sia perché anticipa in
qualche modo le grandi esperienze mistiche della giovinezza e della
maturità, sia per la sincerità con cui Marianna lo riferisce. La nostra
protagonista non ha ancora compiuto otto anni quando viene colpita da una grave malattia che la porta in fin di vita. Il papà è morto da poco. Un francescano suggerisce alla mamma di «votarla alla santissima Vergine della Concezione». La Madonna esaudisce le preghiere della famiglia e della stessa Marianna che la invoca: «Maria, aiutatemi!».inconsolabile. «Ci chiamavano perché piangessimo, ma non potevano cavarci niente». Quando poi si scoprì la piccola bisaccia, le domande si fecero più incalzanti e l’interrogatorio più serrato, ma i due piccoli congiurati erano muti come pesci. Si fece ricorso allora alla minaccia «di staffilate» se non confessavano la verità ,«e io – ammette umilmente Marianna – come più nemica del patire, li scoprii il tutto, e così il tutto andò in vano» .
In una visione la piccola inferma vede «la Santissima Vergine innanzi a Nostro Signore a intercedere per me. Ma Nostro Signore non voleva farmi la grazia, facendoli vedere quanto li saria stata ingrata. Ma alla fine mi fece la grazia, non riguardando alla mia poca corrispondenza, perché in luogo di renderli le dovute grazie di beneficio sì grande, incominciai a offenderlo» .
Superata la grave malattia, Marianna si rivela una bambina vivacissima, esuberante di vita e di voglia di vivere, sensibilissima e affettuosa, curiosa di scoprire e sperimentare la realtà che la circonda e, nello stesso tempo, attratta e affascinata dal mistero di Dio. Nei suoi ricordi emerge nitida la lotta che già in questa tenera età deve sostenere tra il desiderio grande di darsi tutta al Signore e il fascino forte che la vita mondana esercita su di lei. Ne risulta un quadretto ameno, in cui la nostra protagonista scopre la sua precoce femminilità con sincerità singolare:
«Mi compiacevo di adornarmi con abiti vani e curiosi, spendendo molte ore allo specchio. Andavo spesso in bizzarrie per non essere così bella come avrei voluto, lamentandomi con mia madre, e la facevo mettere in collera qualche volta. Mi spiaceva vedere altre della mia età più aggiustate di me, e tanta era la mia malignità che, se mi fosse stato lecito, gli avrei strappato tutto dà dosso: insomma era tanta la mia vanità, che la serva di casa mi diceva che non ero buona ad altro che di star allo specchio a berlicarmi. Mi studiavo di parlar bene e per sentenze e desideravo d’esser lodata e stimata più delle mie compagne. Mi gustavo di veder gioventù che mi facesse servitù, e mi amassero e mi facessero presenti».
A questo punto si accorge di avere forse esagerato un po’ nel ricordare i suoi peccati (si pensi che non aveva ancora dodici anni!) e precisa: «ma
in questo non comprendevo il gran male che poteva succedere e il
continuo pericolo che avevo di offendere Dio, ma solo mi compiacevo
d’esser adulata dal mondo e stimata e lodata per la più brava di tutte
le altre».
La sua bravura, quella che soprattutto attirava l’attenzione e i complimenti degli altri nei ricevimenti di società era la danza, una vera passione, in cui eccelleva superando in grazia ed eleganza «tutte le altre»: «Gustavo
molto di ballare, e mi studiavo molto di passare le altre…e spesso mi
ridevo di loro, crescendo sempre la mia propria stima».
Più avanti, parlando del periodo successivo alla prima comunione (15
agosto 1672), in cui si era impegnata a una vita più ritirata e
penitente con l’aiuto di un santo sacerdote che le insegna «a mortificare le mie passioni e male inclinazioni», ammette ancora che quella del ballare «era grande». Dopo aver completato il quadro delle mancanze infantili con la confessione di «qualche bugia, però in cose leggere», di «qualche risentimento e cagnine con miei fratelli», deve ammettere che «la mormorazione la fuggivo più che la morte, non portavo mala volontà a nissuno, perché contro la carità andavo molto riguardata».
In questo continuo altalenare tra Dio e il mondo, a Marianna accade
un episodio che segnerà la sua spiritualità per tutta la vita: l’incontro col Crocifisso. Nel rievocarlo, si rivolge direttamente al Signore, esclamando con la sua consueta sincerità:«Mi cavasti dal fango del pazzo mondo, incominciandomi a venirmi a nausea le delicie e gusti del mondo, di sorte che pativo un gran tormento perché il proprio naturale li gustava, e dall’altra Nostro Signore a lui mi chiamava, e così combattendo ora ridevo, ora piangevo. E stando in questa maniera, trovai un Crocifisso senza la croce e li avevano rotti li bracci. Io quando lo vidi, mi fece gran compassione e lo presi, mettendolo nel letto della buatta (bambola) gettandola via. Mi intenerii tanto che mi disfacevo tutta in lacrime e mi pareva gran crudeltà che l’avessero trattato di questa maniera: mi sentivo a dire dentro di me che io ne ero la causa. Questo mi faceva struggere di pena: spendevo molte ore in questo trattenimento, pregandolo che mi perdonasse li miei peccati, e Nostro Signore concorreva meco distaccandomi da quel pazzo mondo, dandomi sentimenti e desideri grandi».
Non si sa esattamente quanti anni avesse Marianna all’epoca di questo avvenimento così decisivo, ma sebbene confessi le sue civetterie «e passatempi», gioca ancora con la bambola. Il gesto spontaneo di «gettarla via» per sostituirla col Crocifisso anticipa un altro tratto peculiare della sua forte personalità: l’immediatezza e la radicalità nelle scelte. Sorprende in questa bambina la capacità di trascorrere «molte ore» in preghiera, nonostante la naturale vivacità e il fascino che su di lei esercitano le conversazioni mondane dove – a detta del suo primo biografo – essendo «di naturale affatto trattabile, cortese, dolce, affettuoso, amabile nelle maniere… piacevole nel portamento, graziosa nel discorso, ognuno la voleva per sé, e come fu sempre la beniamina della madre, così era la diletta della famiglia». Lei stessa ammette che la lotta interiore è dura:
«Subito che mi veniva l’occasione, ero più scaldata di prima, e andando da Nostro Signore, ritornavo tutta in lacrime, ma alla fine mi straccai più io che non si straccò il mio Dio».
Dopo sette anni trascorsi nel convento, attraversò una lunga e grave “notte oscura“, che affrontò con la guida molto abile di p. Lorenzo Maria. Tre anni dopo, superando le violente crisi interiori e le pratiche ascetiche estreme, raggiunse una più completa devozione spirituale. A trent’anni fu nominata maestra delle novizie, e tre anni dopo priora:
accettò questi incarichi con riluttanza, ma li svolse con notevole
capacità. Con il suggerimento del B. Sebastiano Valfré (30 gen.),
intraprese la fondazione di un convento a Moncalieri
nel 1702. Sebbene avesse solo una piccola casa e un sussidio inadeguato a
disposizione, riuscì a istituire il nucleo di una congregazione, che
sopravvive ancora oggi. Desiderava vivere a Moncalieri, ma poiché a
Torino era molto stimata dalla nobiltà e dalle persone che le avevano
chiesto consiglio, fu convinta a farvi ritorno.
Le sue opere sono ricche di grazia e di calore umano, uniti a una
fede salda. Scrisse, per esempio, alla priora di Moncalieri, per
consolarla della morte della sua sottopriora:«L’ho amata in modo molto speciale, come se fosse la mia padrona in Gesù Cristo. Questa perdita mi ha letteralmente lacerato il cuore [ . . . ] Credo che la Maestà Divina, vedendo il frutto perfettamente maturo, abbia pensato bene di chiamare a sé questa mente preziosa, per donarle la felicità eterna».
La lettera, che non è datata, è conservata in una specie di reliquiario nel monastero carmelitano dei SS. Giuseppe e Leopoldo a Ghent. Maria degli Angeli condusse una vita di preghiera intensa e mistica. «L’amore di Dio» disse «illumina la nostra oscurità», ma era anche molto pratica, nel tenere la contabilità, sorvegliare gli operai e svolgere i numerosi compiti che spettavano a una priora. Quando la sua salute s’indebolì e le monache di Santa Cristina vollero rieleggerla superiora, si sentì incapace di sostenere il lavoro e pregò di morire presto, secondo la volontà di Dio. La malattia la portò alla morte tre settimane più tardi.
“La bontà del Signore – si legge nei suoi scritti – è maggiore di quanti mali e peccati possiamo commettere, e prima ci stanchiamo noi di offenderlo che egli di perdonarci.”
La causa di suor Maria degli Angeli fu introdotta per richiesta del re Vittorio Amedeo II di Savoia, e la beatificazione giunse, con l’approvazione di papa Pio IX, nel 1865. Al Processo Informativo Ordinario, apertosi nel 1720 a meno di tre anni dalla sua morte, il padre Michele di S. Teresa, carmelitano scalzo, testimonia:
«Io so che la detta serva di Dio suor Maria degli Angeli nacque l’anno 1661 li 7 gennaro in questa città di Torino nella casa propria dè suoi genitori posta sotto la parrocchia de’ Santi Simone e Giuda, e in faccia alla chiesa parrocchiale… Io so esser detta serva di Dio… nata dalli furono ill.mi Signori Giugali Giovanni Donato Fontanella e Maria Tana Fontanella. Detto Signor Giovanni Donato era nativo di questa città, e la signora Maria Tana era della nobile famiglia dè Signori Tana Santena di Chieri… Signori che vivevano delle loro opulente entrate, ambi nobili di progenie, massime la madre della detta serva di Dio, la quale era congiunta in secondo e terzo grado con il Beato Luigi Gonzaga della Compagnia di Gesù» .
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